domingo, março 08, 2009

Il diritto naturale è vivo e, se solo lo vogliamo, lotta insieme a noi


Prove di dialogo
Il diritto naturale è vivo e, se solo lo vogliamo, lotta insieme a noi

8 Marzo 2009

C’è un aureo libretto del Cardinale Zenon Grocholewski dal titolo “La legge naturale nella dottrina della Chiesa” che si fonda su un postulato esposto con chiarezza sin nelle sue prime righe: “(…) la legge naturale - insita nel cuore degli uomini – appartiene al grande patrimonio della sapienza umana, ma nello stesso tempo è oggetto dell’insegnamento delle Chiesa, in quanto, pur essendo una verità di ordine naturale, è stata illuminata dalla luce della Rivelazione. Essa, di conseguenza, offre il fondamento naturale, che permette al credente di dialogare anche con le persone di altro orientamento e di altre formazioni”.
In un tempo caratterizzato dalla crisi profonda delle ideologie novecentesche, dall’apparire di nuove sfide ed emergenze inedite, è necessario partire dal postulato di Grocholewski, approfondirlo e verificarne la congruenza in ordine a tre possibili dialoghi, che gli anni futuri vedranno certamente approfondirsi. Dialoghi che si fondano sul tentativo di dare risposta ad alcuni quesiti:
- La legge naturale può essere la premessa per un nuovo modo d’intendere il dialogo tra differenti religioni, problema di crescente importanza, non solo in ambito culturale visto che la nostra società è interessata da un fenomeno immigratorio di proporzioni fino a qualche anno fa inimmaginabili?
- La legge naturale può aiutare una nuova fase del dialogo tra credenti e non credenti, diversa per intensità e qualità dal dialogo tra laici e cattolici che ha fin qui caratterizzato la vita politica dell’Italia del dopo-guerra?
- La legge naturale può rendere, se non compatibili quanto meno comprensibili, le concezioni alternative di quanti ritengono la Costituzione il fondamento primo del vivere sociale e quanti, invece, ritengono che vi siano principi previi inerenti la vita, la libertà e la dignità della persona umana che precedono persino le Leggi Fondamentali?
Per un nuovo dialogo interreligioso.
Negli anni passati, sulla scorta di una banalizzazione delle acquisizioni del Vaticano II, è stato di gran moda, anche in ambito ecclesiastico, promuovere momenti di cosiddetto dialogo interreligioso tendenti per lo più a dimostrare la possibilità di giungere a una sintesi, quanto meno tra le tre religioni del libro. Questa tendenza non ha prodotto soltanto momenti di confronto. Si è persino esplicata in celebrazioni sincretiche. Ha così rischiato di prodursi una pericolosa confusione tra il concetto di "religioni" e quello di "culture" e, attraverso di essa, d'essere introdotta una visione relativista sin nel nocciolo più duro della Chiesa cattolica.
Non s'intende negare, infatti, che il contatto tra differenti religioni possa produrre effetti sociali benefici e allontanare lo spettro di inaugurabili conflitti. Ma questi effetti si possono produrre se si ha ben presente cosa si mette a contatto; cosa si può e cosa invece non si può ibridare.
Chi crede nell'esistenza di un diritto naturale, infatti, andrà alla ricerca, a monte, di quella razionalità universale fatta di ragione e di emozioni che risiede in fondo al cuore di ogni uomo e alla quale nessuna religione può sfuggire, secondo la traccia magistralmente dettata a Ratisbona da Benedetto XVI. E, a valle, fondandosi su questa ricerca prioritaria, cercherà di promuovere una ibridazione tra culture intese anche come precipitato delle differenti religioni in senso sempre più compatibile con i precetti di una ragione universale. Quello che si asterrà dal fare, invece - per rispetto verso di sé innanzi tutto e poi per rispetto verso l'altro -, è provare a manipolare, rivedere, accostare i dogmi delle differenti religioni; ancor più se esse sono religioni rivelate. Perché così facendo, inevitabilmente, le religioni perderebbero ciò che le rende "non relativizzabili" e, cessando d'essere oggetto di fede, scadrebbero a precetto, regola morale, costume.
Vivere come se Dio esistesse
Questa premessa, che concerne il dialogo tra le grandi religioni, aiuta anche a comprendere meglio i termini di una questione più politica e, almeno per come la si prenderà in considerazione stasera, più "domestica": se esistono basi rinnovate sulle quali si possa sviluppare nella vita politica italiana un dialogo, o addirittura una collaborazione, tra laici e cattolici, modo tutto italiano per dire tra credenti e non credenti.
E' necessaria una precisazione. Quando l'allora cardinale Ratzinger - prima nel libro scritto a quattro mani con il Presidente Marcello Pera; poi, e in maniera più specifica, nel discorso tenuto a Subiaco il giorno stesso della morte del Santo Padre Giovanni Paolo II - lanciò la proposta ai non credenti affinché, invertendo la formula illuministica, accettassero di vivere come se Dio esistesse, non si riferiva all'Italia ma a un più ampio contesto di civiltà.
Non di meno, quella proposta può avere una sua declinazione nella nostra politica interna. Da noi, infatti, il dialogo tra laici e cattolici nel secondo dopo-guerra ha conosciuto almeno due fasi di grande momento.
A cavallo tra gli anni Quaranta e Cinquanta, in un Paese non ancora secolarizzato e segnato da una separazione formale che per la fragilità della costruzione istituzionale dello Stato faceva fatica a tradursi in politiche positive, la collaborazione tra De Gasperi e i politici laici non comunisti garantì al Paese la sua stabile collocazione a Occidente, la fuoruscita dalle difficoltà del periodo bellico e anche l'esperienza di un partito d'ispirazione cristiana autonomo dalle gerarchie ecclesiastiche.
Nel clima del post-concilio, si infittirono invece i contatti tra esponenti del comunismo cristiano e la sinistra cattolica. E' questa quella che si potrebbe definire "la seconda fase". Questo dialogo conobbe declinazioni meramente politiche che si spinsero fino alla formula del "compromesso storico", altre culturali, altre ancora di tipo teologico con i rischi connessi di portare la fede a trasformarsi in una mondana teoria socio-economica. Tutte queste differenti declinazioni trovavano il loro terreno d'applicazione in ambito sociale e l'obbiettivo principale nell'eguaglianza delle condizioni materiali.
Si comprenderà perché, con il fallimento storico delle politiche di pianificazione e delle teorie deterministiche, questo dialogo sia entrato in crisi. E si potrà altresì comprendere la ragione per la quale il trasferimento delle pretese dei costruttivisti dal terreno sociale al terreno antropologico (la pretesa, cioè, che l'uomo possa pianificare e controllare ogni istante della propria vita dalla culla alla bara), abbia aperto una possibilità di contatto proficuo tra la cultura cristiana e la cultura liberale.
La circostanza rimanda direttamente a Erasmo, al suo cattolicesimo liberale e alla convinzione che condizione necessaria per stabilire la libertà dell'essere umano sia la sua fallibilità. Circostanza questa che, da un canto, porta ad affermare che anche in una prospettiva di vita il futuro debba restare sempre aperto; dall'altro spinge a ricercare i fondamenti del proprio agire in quei postulati immutabili del diritto naturale che si enuclearono già nel mondo greco e in quello romano pre-cristiano. E che il cristianesimo ha in seguito rafforzato e divulgato.
In un recente articolo sul Corriere della Sera, a proposito delle dichiarazioni anticipate di trattamento, un commentatore liberale non pregiudizialmente ostile nei confronti della religione, Angelo Panebianco, ha affermato che la sacralità della vita sarebbe interesse soltanto dei credenti. Si sbaglia, non è così. Senza considerare il grado d'universalità di questo precetto non si comprenderebbe sennò l'evoluzione positiva dei diritti dell'uomo, dalla Dichiarazione Universale fino alle ultime dichiarazioni dell'Onu. Ed è proprio questo grado d'universalità, che rimanda al diritto naturale, a far sì che cristiani e liberali, al cospetto della sfida antropologica del XXI secolo, si trovino sempre più spesso dalla stessa parte.
Diritto naturale e costituzionalismo: è un'alleanza possibile?
Con crescente frequenza le Costituzioni sono interpretate come fondamento ultimo della civile convivenza. Al punto che il richiamo ai precetti del diritto naturale si ritiene possa minarne la legittimità: come se indicando dei fondamenti preesistenti e più "duri" delle stesse Leggi Fondamentali, se ne volesse sminuire l'importanza.
Ci dobbiamo ora chiedere: questa contrapposizione ha ragione d'essere? Io ritengo di no e, per negarla, potrei ricorrere ad affermazioni di Aristotele e di Cicerone. Ma per essere ancora più prossimi al quesito, conviene andare alle radici del moderno costituzionalismo. Qui troviamo la separazione tra governo e giurisdizione che si tradusse nell'Inghilterra del XVI nella formalizzazione della distinzione d'origine medievale tra la sfera del gubernaculum e quella della iurisdictio. Entrambe, in origine, facevano riferimento al re "fontana della giustizia". Ma il re nell'ambito della iurisdictio, pur essendone la fonte, doveva sottostare a limiti e impedimenti. E questi, in origine, erano giustificati dal riconoscimento di una vis directiva - per dirla con San Tommaso - preesistente, sovraordinata - e per questo più forte - della stessa assolutezza del potere reale. Da qui sarebbero poi discese disposizioni di legge positiva che il re avrebbe dovuto accettare senza avere la possibilità di avocarle a sé. E si sarebbe quindi generata la separazione tra il potere esecutivo e il potere legislativo. Ma anche lo stesso concetto di "legge fondamentale", che trova giustificazione fino a quando si collega a principi sovraordinati, preesistenti e dunque più forti rispetto allo stesso assolutismo reale.
Con il tempo, purtroppo, questo collegamento tra diritto naturale e il concetto stesso di Costituzione che, in fondo, non è altro che una sua pretesa traduzione nell'ambito del diritto positivo, si è scolorito. E' per questo che, ad esempio, il filosofo Jurgen Habermas, nel tentativo di liberare l'identità tedesca dagli efferati crimini del nazismo - ma anche dalle polemiche ricostruzioni di una linea di continuità che li avrebbe legati alla origine stessa dello Stato tedesco - ha coniato la definizione di "patriottismo costituzionale": un modo per rimarcare l'orgoglio per aver rifondato un organismo statuale ancorandolo a una cultura liberal-democratica.
Quella formula, però, trasferita al di fuori del contesto tedesco, ha avuto l'effetto di stabilire la possibilità che l'identità di un popolo possa rintracciarsi unicamente - o quantomeno prevalentemente - nel diritto positivo di rango costituzionale. Ciò comporta alcuni rischi. Se, infatti, si dimentica il legame che deve esistere tra i principi del diritto naturale e una legge fondamentale che prova a dar loro attuazione positiva, da un canto si è portati a proiettarsi troppo in avanti dimenticando le proprie radici nell'illusione che l'identità possa essere esclusivamente in divenire, definita da diritti che si autogenerano; dall'altro canto si corre il rischio dell'immobilismo, trasformando un testo che è pur sempre di diritto positivo in una sorta di totem immodificabile. Uno sguardo all'attualità ci dice come, assai spesso, i due rischi - quello della negazione della tradizione e quello dell'immobilismo - finiscano paradossalmente per coniugarsi assieme. Per evitarli, anche in questo caso, è necessario riconoscere al diritto naturale il posto che gli spetta ed affermare come i suoi principi abbiano una funzione catartica delle pagine più oscure del secolo del male assai più efficace del supposto patriottismo di qualunque costituzione.
Ho risposto ai tre quesiti posti all'inizio di questo breve intervento. Non so se in maniera soddisfacente. Ma, anche se alcune parti di questo discorso saranno contraddette, ciò non porterebbe a negare la vitalità del diritto naturale né la centralità che esso può occupare nelle sfide che il nuovo secolo giunge a proporci.

FONTE: L'Occidentale - Roma,Lazio,Italy

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