sexta-feira, março 28, 2008

Come posso ora scrivere poesia?

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Philippe Rapoport
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Affollatissima la conferenza delle due femministe americane Butler e Brown

Come posso ora scrivere poesia?

Doriana Goracci
Judith Butler ha concluso, con grandi e “sommossi” applausi, le risposte date ad autorevoli e “difficili” domande che io non ho riportato, continuando in qualche modo la sua relazione ma rendendo conto con ferma asserzione del suo percorso femminista e queer, che contatta e si scontra, si riconosce genitore-genitrice nel dare cura sulla base di quello che si fà, chiedendo necessità di ripensare alla parentela, senza misoginia alcuna.
Un milardo di catene da Kandahar a Guantanamo... bastonato umiliato in catene come posso ora scrivere poesia? Dopo l’estrema umiliazione della tortura come fare poesia? Sono le parole ad emergere dal corpo torturato e farsi versi, hanno la capacità di sopravvivere.

Pace dicono? Pace di che tipo? E’ così semplice uccidere? E’ questo il loro piano?
Parlano discutono uccidono lottano per la pace. E la poesia cerca di svergognare le parole che uccidono in nome della pace.
Inizio con le parole conclusive pronunciate il 27 marzo da Judith Butler nell’Aula Magna dell’Università Roma Tre della Facoltà di Lettere e Filosofia, piena fino all’inverosimile.
Il Seminario aveva per titolo “Sovranità, confini, vulnerabilità”.
Ha avuto, e purtroppo da me non seguita, una prima parte con la conferenza di Wendy Brown “Sovranità porosa, democrazia murata” e la seconda con Judith Butler “Vulnerabilità e sopravvivenza: la politica ‘affettiva’ della guerra” entrambe tra le pensatrici femministe di maggiore spicco dell’attuale panorama filosofico occidentale ed entrambe docenti all’Università della California a Berkeley.
Quella che segue, altro non è che la successione delle domande e risposte che Judith Butler è andata formulando ed esponendo, con coraggio e chiarezza di esposizione, per me non facilmente riscontrabili nel panorama italiano,e sicuramente parziale, basandosi sui miei appunti.
Certe perdite mi minacciano, se perdo l’altro, chi sono io?
Il mio corpo reclama diritti non solo miei.
La nazione mi garantisce o mette in pericolo la mia sopravvivenza?
Dove come e perchè un confine può essere attraversato?
Sono stata separata dagli altri e mi devo mettere in relazione con gli altri: io sono legata a te nella mia separatezza.
Sono cittadina di una idealizzazione del crimine in guerra.
Esiste la dipendenza politica, perchè dipendiamo da certe persone piuttosto che da altre?
Perchè la violenza degli stati è giustificata?
Perchè è ingiustificata per chi si oppone?
Abbiamo orrore morale di fronte alla violenza.
L’orrore morale è umanità?
Perchè certe morti non ci toccano, non le percepiamo come morti?
Ed invece certe vite diventano vivibili e degne di essere protette?
Cosa permette che una vita diventi visibile e cosa ci impedisce di vederla tale?
I Media rendono percepibili certe vite in assoluto. Percepire la vita non è incontrare una vita nella sua precarietà, non si tratta di mera sopravvivenza.
Sfidare i media dominanti, quelli che ci dicono le vite degne e indegne, quello che possiamo dire e non dire, vedere e non vedere. La guerra agisce sui sensi: ottunde certe immagini e suoni.
I sensi sono in opera: il corpo è un’entità con dei confini?
Non esiste un’unica forma umana, il corpo è inevitabilmente senza confini, nel mondo degli altri, in uno spazio e tempo che non controlla. Il mio corpo viene sostenuto dalle reti sociali e politiche, mi facilita o non mi rende vivibile la mia vita.
Sono già nelle mani dell’altro, alcuni corpi sono precari più di altri.I corpi possono essere legati ad altri e con la tortura dagli altri. Nel contatto non desiderato il capo trova la sua esistenza.
In quanto alla sopravvivenza, riporto queste poesie sopravvissute a Guantanamo, sfuggite alla censura. Il contenuto di queste poesie diviene incendiario, minaccia per la sicurezza di una nazione: cos’è che rende la poesia pericolosa per una nazione?
Le nostre lacrime si fanno mulinello, nessuno può sopportarle eppure le parole arrivano.
Scrivo il mio desiderio nascosto
Le mie costole sono rotte, il mio corpo è fragile.
Le lacrime del desiderio dell’altro, mi toccano. Il mio petto non sopporta questa emozione, l’emozione non è vestita di una singola persona.
Anche quando il corpo non sopravvive, sopravvivono i corpi: si susseguono appelli e sforzi, anche se non c’è nessuna ragione per credere questa concessione possibile.
Come non pensare ai cileni?
C’è un’aritmetica della respirazione, ogni respiro appare il primo respiro, è quello che ci tiene vivi quando esaliamo l’universo, oltre noi, oltre il respiro, oltre il corpo transitorio.Il corpo respira con le parole, passa ad un altro.
Come corpi, siamo esposti agli altri. Le parole non cambieranno il corso della guerra, eppure si fanno ostinata vita, vulnerabili sopraffatte infuriate spossate , diventano conseguenze politiche, comunicabili, in mezzo alla solitudine fisica.
Il linguaggio ci offre atti critici di resistenza, atti incendiari. I processi sono paralleli e vanno avanti nell’ umanizzazione e demonizzazione. La Norma viene imposta e quanto e come funziona questa imposizione, come si resiste a questa imposizione, qual’è il modo attivo per inceppare il meccanismo?
Il potere non è solo una trappola, è anche una convinzione di libertà.
Cos’è l’azione se non l’effetto degli affetti, l’interdipendenza, l’espressione degli affetti che esprimono, che escono dalla collettività e passività, che si prendono tutte e due le possibilità?
La resistenza politica deve rendere possibile lo Scandalo. Nella rapprersentazione e nella costituzione assistiamo a vari tipi di violenza, malgrado essi siano uguali, sono più visibili alcuni, rispetto ad altri. Critico il soggetto nazionale e maschile.
Stare in compagnia di sè stessi è avere la capacità di rispondere se una vita è precaria, se può essere distrutta, se bisogna difenderla: perchè tu sei tu con cui condivido la precarietà e la possibilità di evitarla o almeno limitarla.
Dobbiamo intervenire attraverso i Media, intervenire politicamente, altrimenti non c’è modo per uscirne e attraverso loro dobbiamo passare e usare tutte le arti visive, come il cinema la poesia la narrativa. L’ospitalità viene usata come termine, perchè non è un termine forte, assicura la mia appartenenza ad una comunità.
Judith Butler ha concluso, con grandi e “sommossi” applausi, le risposte date ad autorevoli e “difficili” domande che io non ho riportato, continuando in qualche modo la sua relazione ma rendendo conto con ferma asserzione del suo percorso femminista e queer, che contatta e si scontra, si riconosce genitore-genitrice nel dare cura sulla base di quello che si fà, chiedendo necessità di ripensare alla parentela, senza misoginia alcuna.
Dalla differenza alla non indifferenza questa è stata in un certo senso, l’ultima domanda di Ida Dominijanni, alla quale come a tutta la corrente differenzialista, si deve l’incontro.
Rimane intatto lo sguardo penetrante, il coraggio della parola, chiara e pregnante di queste due grandi del pensiero, che dalla riflessione passano all’azione, alla pratica di vita reale e concreta, in
Tempi di Guerra.
28 marzo 2008
FONTE: Il Paese delle Donne - Italy

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